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In questi ultimi anni si sono moltiplicati
i casi di conflitto, patente e latente, tra chi lavora nelle scuole e i
dirigenti scolastici. Ciò in virtù dell’aumentato potere conferito ai
dirigenti sia in ordine alla organizzazione del lavoro, sia sul piano
disciplinare. Ma i conflitti si verificano di frequente anche con il
cosiddetto staff dei dirigenti, i cui confini non sono sempre
univocamente definiti, e con i genitori, il cui ruolo è molto cambiato,
soprattutto a partire dall’epoca del ministero Moratti.
Alcuni decisivi mutamenti legislativi e il
cambiamento ideologico hanno contribuito ad accentuare il conflitto e
lo stress degli operatori della scuola. Tra i primi, l’aumento dei
carichi di lavoro e delle competenze richieste, innovazioni introdotte
per via legislativa o amministrativa scavalcando la mediazione
contrattuale (con la sostanziale inerzia dei sindacati di Stato);
l’aumento dei poteri dei dirigenti (con il D.Legs. 150/2009 e la L.
107/2015), nell’ambito delle scelte di indirizzo della scuola, della
gestione del personale, sottratta alla contrattazione sindacale, nei
procedimenti disciplinari; l’introduzione della valutazione di sistema
(INVALSI, RAV, piano di miglioramento dell’offerta formativa), e infine
del bonus premiale per i docenti.
Queste modifiche normative sono state
accompagnate da un contestuale mutamento sul piano ideologico della
funzione della scuola e insieme dell’immagine di competenza
dell’insegnante, da cui ci si aspettano capacità e competenze sempre più
estese e articolate in termini di conoscenze disciplinari, metodologie e
tecniche didattiche, capacità di comunicazione, accoglienza, sostegno,
valorizzazione, recupero, assistenza, cura individuale, competenze
cliniche, organizzative, legislative, amministrative, informatiche, che
molto difficilmente e solo per un caso o per sorte divina si ritrovano
in una sola persona. Si è chiesto con sempre maggiore pressione
all’insegnante di accogliere le richieste di studenti e famiglie, anche
inseguendo obiettivi in patente contrasto reciproco, come quello di
semplificare la didattica e adeguare gli obiettivi alle competenze
minime e viceversa di supportare le eccellenze e portarle al massimo
“valore”.
In questo processo caratterizzato da una
accentuata pressione sociale sull’insegnante, si è realizzata una
convergenza di interessi tra dirigenti, impegnati a migliorare le
prestazioni della scuola, e genitori, diventati i difensori d’ufficio
dei figli – utenti ai quali è rivolto il servizio della scuola azienda.
La categoria docente viene accusata di non
essere alla altezza del suo nuovo compito sociale: un’accusa molto
semplice, e insieme priva di senso logico, data l’impossibilità di
adeguarsi a standard oggettivamente sovrumani. La pressione si è
accentuata anche su tutto il personale ATA, trasformato in personale
funzionale al miglioramento dei piani dell’offerta formativa senza alcun
diritto di parola nel merito. La figura professionale più colpita in
questo momento appare quella dell’assistente amministrativo, il cui
lavoro è sempre più complesso e sottoposto a ritmi sempre più pressanti.
Il risultato è uno stress troppo spesso latente che non ha ancora
trovato uno spazio pubblico adeguato.
I campi del conflitto
Alcuni campi del conflitto riguardano l’intero personale, sia docente sia ATA.
Una prima area del conflitto comune è
quella dell’attribuzione degli incarichi. In quest’area le norme del
D.Legs. 150/2009 (il c.d. Decreto Brunetta) hanno segnato un passaggio
importante verso una pratica autoritaria: è il dirigente, senza alcun
vincolo contrattuale, ad attribuire gli incarichi, e spesso succede che
gli incarichi siano concentrati su un gruppo di persone, legate
direttamente allo staff della dirigenza e ciò in modo assolutamente
indipendente dal cosiddetto merito. Perciò, con l’argomento della tutela
della privacy, molti dirigenti tendono a non rendere pubblica
l’informazione sull’uso delle risorse, e spesso a non darla nemmeno alle
RSU, cui viene sempre più spesso fornito un prospetto con i dati
aggregati in modo da nascondere i dati individuali.
Il secondo campo di conflitto è
l’attribuzione delle sedi e dell’orario di lavoro, dove si possono
creare disparità di trattamento tra coloro che godono di un privilegio
di posizione e coloro cui viene riservato un destino da arlecchino. Per
chi insegna i conflitti riguardano insieme l’assegnazione delle sedi e
delle cattedre, per la quale il dirigente dovrebbe seguire i criteri
generali del consiglio di Istituto e le proposte operative del collegio
docenti, che però spesso vengono “superati”, cioè praticamente ignorati.
Le ultime modifiche contrattuali (l’art. 22 del CCNL del 19 aprile 2018
e l’art. 3, comma 5 del CCNI sulla mobilità del 6 marzo 2019) non hanno
modificato sostanzialmente la situazione.
Sempre più spesso sorgono conflitti in
relazione alla sostituzione del personale assente. Invece che nominare
supplenti (anche per via di una serie di norme finanziarie che limitano
tale possibilità) si scarica su chi è presente anche il lavoro degli
assenti: per il personale ATA questo comporta sia l’intensificazione del
lavoro sia il ricorso al lavoro straordinario, con un indubbio aumento
dello stress; per il personale docente comporta spesso che le classi dei
docenti assenti vengano divise in gruppi, e questi vengano smistati in
altre classi dove l’attività didattica programmata deve essere
riadattata istantaneamente all’arrivo del nuovo gruppo, magari
proveniente anche da una classe non parallela, e quindi nemmeno
interessato all’argomento della lezione.
Un altro campo di conflitto è quella
relativa alla fruizione del diritto di assentarsi, inconciliabile con la
logica produttiva: chi fruisce regolarmente dei permessi previsti dalla
L. 104/92, chi si assenta per malattia ricorrente o cronica, o per
congedo parentale, chi vuole fruire dei permessi di studio, del
ricongiungimento con il coniuge all’estero, o chi addirittura si
permette di chiedere permessi o ferie per motivi personali o familiari
diventa un elemento di disturbo, da riportare all’ordine.
Un’ultima area del conflitto, è l’area
della didattica, che include la gestione della disciplina e la
valutazione del profitto. In quest’area i dirigenti hanno iniziato a
esercitare un controllo sulla formulazione delle programmazioni, sulla
consistenza e la qualità dei programmi svolti, sul numero e sul valore
delle prove di verifica: in quest’opera sono guidati dall’esaltante
obiettivo di omogeneizzare la didattica secondo gli standard di scuola,
che dovrebbero diventare obbligatori per tutti/e. In questa nuova
prospettiva, l’evidente contrasto tra queste condotte e l’articolo 33
della Costituzione, che garantisce la libertà di insegnamento, non
sarebbe un chiaro segno della illegittimità della nuova pratica di
controllo, ma viceversa della vetustà delle norme costituzionali, che
dovrebbero essere cambiate in nome della nuova ideologia che vuole
trasformare l’insegnante in operaio/a massa, che esegue gli ordini di
chi pensa in sua vece.
È in questa area che esercitano un potere
crescente e pressante i genitori, che premono sui dirigenti affinché i
docenti si conformino alle esigenze della loro prole. E i dirigenti
prestano sempre maggiore attenzione alle richieste di intervento di
genitori e studenti per redarguire e sanzionare non tanto i docenti che
si impegnano poco, ma soprattutto coloro che svolgono un programma
troppo impegnativo, o che valutano in modo troppo severo, o che chiedono
provvedimenti disciplinari per studenti che violano i regolamenti
scolastici. In questo la nuova scuola tende a rispondere ai criteri
della customer satisfaction. Questa tendenza si è spinta a tal punto che
alcune scuole garantiscono la promozione a chi si iscriva, imitando le
scuole private di recupero anni scolastici.
La gestione dirigenziale dell’ordine
Quali pratiche “rieducative”
vengono usate nelle scuole per ottenere un adeguamento degli operatori
al nuovo modello di scuola? Quando si individua una persona che viene
considerata un elemento di disturbo, una persona fuori dal coro, non
integrata nel nuovo modello di scuola, la prima strategia d’azione è
quella di esercitare un controllo ossessivo sul suo lavoro, sulla
puntualità in ingresso, sulle relazioni con colleghe/i e con alunne/i, e
se si tratta di un docente su tutti gli aspetti didattici.
Il controllo è propedeutico alla
contestazione e all’apertura di procedimenti disciplinari. In questo
campo i poteri dei dirigenti scolastici sono stati notevolmente estesi,
inglobando, come quelli dell’inquisitore medioevale, i poteri di
indagine del giudice preliminare, i poteri di accusa del pubblico
ministero e i poteri decisionali del giudice vero e proprio. Né
l’esercizio di tali poteri è sottoposto ad alcun controllo, perché
nessun organo superiore vigila, e perché nel procedimento disciplinare
manca completamente il principio di terzietà.
E alla contestazione si accompagna la
squalifica sistematica. Ad ogni intervento pubblico critico o
semplicemente divergente si fa seguire un commento di delegittimazione
(con l’uso di formule rituali quali “la sua è una mera opinione”).
Se un docente scomodo propone una sanzione disciplinare proposta nei
confronti degli studenti, si ribalta l’accusa in modo paradossale: se
l’alunno ha mancato di rispetto all’insegnante, la responsabilità,
perlomeno parziale, è dell’insegnante, e perciò la questione va
rovesciata: è l’insegnante che non sa mantenere la disciplina e non sa
farsi rispettare, è l’insegnante che con il suo comportamento
antisociale provoca le motivate reazioni degli studenti; è
dell’insegnante la responsabilità dello scarso profitto degli studenti,
del loro scarso impegno, e se vengono usati i cellulari, è certamente
l’insegnante che lo ha consentito o che non è stato capace da impedirlo.
La strategia vincente e finale è quella
dell’isolamento, con l’adozione delle modalità conosciute da tempo
immemorabile dalle comunità umane: freddezza comunicativa, distanza,
formalità assoluta nei rapporti personali, uso sistematico delle
comunicazioni scritte, censura nella verbalizzazione.
Che tipo di azioni intraprendere?
La categoria, come parte della società,
sembra dominata dalla paura, sentimento che favorisce l’azione
autoritaria, ne è perfettamente complementare, tanto che Montesquieu la
considerava il pilastro del governo dispotico.
In questo clima di paura, le azioni
tradizionali di contrasto messe in atto da docenti e ATA, e dalle
residue forze sindacali, per bloccare questa offensiva autoritaria
sempre meno mascherata, sono sempre più deboli e inefficaci. Lettere,
richieste di incontri, richieste di conciliazione e diffide sono
pratiche ormai inefficaci. I ricorsi al giudice sono onerosi, lunghi,
faticosi, stressanti, e rischiosi. Nel complesso i dirigenti scolastici
attualmente risultano dotati di ampia immunità.
Se si vuole contrastare questa offensiva
autoritaria, occorre quindi trovare nuove modalità di agire, pensando a
lungo termine e breve termine.
A lungo termine, occorre richiedere due
riforme: la riforma dei procedimenti disciplinari e la riforma delle
procedure di conciliazione extragiudiziale.
Per quanto riguarda i procedimenti
disciplinari, appare urgente richiedere il ripristino delle procedure
disciplinari interne, come sono ancora previste per i docenti
universitari e per i magistrati, riformando gli articoli 54 e 55 del
D.Legs. 165/2001.
Per quanto concerne la conciliazione
extragiudiziale, occorre riformare l’art. 420 del codice di procedura
civile, reintroducendo una procedura di conciliazione obbligatoria, resa
facoltativa dall’art. 31 della L. 183/2010 ( il c.d. collegato al
lavoro). La non obbligatorietà della conciliazione permette
all’Amministrazione pubblica di non presentarsi, costringendo di fatto i
lavoratori e le lavoratrici a rivolgersi ad un giudice del lavoro, il
che implica un costo e un’energia notevoli.
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Nell’immediato, bisogna trovare il
coraggio di portare alla luce le azioni arbitrarie, le storture, le
vessazioni, le pressioni per aumentare il lavoro, e le situazioni che
generano stress aggiuntivo tra docenti e ATA. Le azioni possono essere
intraprese con le RSU, o in una situazione di inerzia di queste ultime,
anche senza di loro.
In primo luogo bisogna far uscire
dall’isolamento le colleghe e i colleghi sottoposti alle vessazioni o
allo stress, mettendo in atto processi virtuosi di condivisione,
producendo documenti di solidarietà o organizzare riunioni specifiche
sui procedimenti disciplinari, o sulle strategie di isolamento messe in
atto dalle dirigenze scolastiche.
Nei casi più gravi, si può arrivare a fare
una denuncia pubblica, attraverso vari canali dei mass-media (giornali,
radio, TV locali, social network). In alcuni casi si può volantinare,
organizzare una manifestazione.
Dove questa pratica diventa difficile, o
troppo rischiosa, si può adottare la pratica della scrittura anonima,
raccontando i nudi fatti senza indicare i nominativi dei protagonisti:
l’effetto del messaggio può essere ugualmente forte.
Si potrebbero rendere pubblici alcuni dati
critici: il numero delle domande di trasferimento in uscita da una
scuola, in modo da mettere in evidenza il grado di sofferenza del
personale, che preferisce allontanarsi da una sede vicina al proprio
domicilio piuttosto che vivere in un clima psicologicamente
insopportabile; raccontare per iscritto i casi dei procedimenti
disciplinari aperti (anche in forma anonima); illustrare il modo in cui
alcuni dirigenti gestiscono unilateralmente l’organizzazione del lavoro,
l’attribuzione degli incarichi e la distribuzione dei fondi delle
scuole, senza alcuna interlocuzione sostanziale con le RSU; mettere in
evidenza i casi di mancata informazione o di totale indisponibilità al
confronto e alla contrattazione.
È importante che coloro che hanno il
potere di decidere della nostra vita professionale abbiano chiaro che il
loro modo agire ha un feedback sociale, e che non possono agire
impunemente solo perché i loro superiori non intervengono. Ma è
importante anche agire sull’opinione pubblica, attualmente incline a
pensare alla scuola come un’agenzia al servizio degli interessi degli
utenti, anziché come un luogo di formazione e di crescita, ribaltando
l’ordine del discorso e delle priorità. E dovremmo mantenere sempre
aperto il dialogo con i genitori, rimettendo al centro del dibattito
l’idea di una scuola inclusiva, aperta e critica, l’idea che nessuna/o
può essere una semplice pedina da usare per realizzare obiettivi sociali
o educativi non condivisi, che la libertà di insegnamento è una risorsa
essenziale della scuola pubblica e della crescita delle nuove
generazioni, e non un residuo di una costituzione obsoleta che fa da
ostacolo al progresso della scuola azienda.
Per questo la riflessione collettiva sulla
scuola, sulle relazioni comunicative, sul rapporto tra generazioni,
anche in una prospettiva storica e antropologica, sulle finalità e i
metodi di insegnamento devono restare al centro dei nostri interessi.
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1L’azione
giudiziale si presenta molto difficile: in primo luogo diventa quasi
insensata per le sanzioni disciplinari inferiori alla sospensione dal
servizio (i cui effetti possibili decadono dopo i due anni); in secondo
luogo risulta ostica per varie ragioni: perché i costi dell’azione
giudiziaria spesso superano il valore della causa; perché i tempi del
processo sono lunghissimi; perché la verità giudiziale risulta spesso
molto diversa dalla realtà; ma soprattutto perché i giudici, oberati di
lavoro, tendono a dare poco peso a fatti che a loro appaiono
micro-conflitti di scarso interesse giudiziale: e, seguendo il principio
de minimis non curat curia, tendono a considerare “
minimi”
la maggior parte dei conflitti nella scuola: trasferimenti, cattedre,
sedi e orari di lavoro, ferie, permessi, aggiornamento, professionalità,
senso della dignità, numero di alunni per classe, libertà di
insegnamento, programmi, criteri di valutazione …